Già prima di tornare in Italia per una breve vacanza, alcuni amici mi
hanno accolta trionfanti annunciando l’uscita de “il” libro: I Buoni, di Luca
Rastello (edizioni Chiarelettere), e regalato una
copia. Senza addentrarmi nel merito
della polemica tra l’autore, A. Sofri, G. Caselli e N. Dalla Chiesa, dico la mia, da lettrice che ha conosciuto certo mondo da vicino.
L’idea del romanzo mi sembra piuttosto originale, e solleva scomodi interrogativi su cosa si nasconde dietro apparentemente nobili attività di tipo sociale, fatti e vizi che spesso molti non vogliono o non riescono a vedere.
Una ragazza rumena, Azalea, arriva a Torino, viene inserita in una comunità, e fa carriera fino a diventare la pupilla del grande capo, l'inavvicinabile santone che pare soffrire quando parla ed indossa maglioni bucati. Attraverso gli occhi di lei, quel mondo di "buoni" che lavorano per combattere il male oggi più in voga, le mafie (una volta era la droga), viene affrontato dapprima con riconoscenza e sorpresa, poi con critica e ribellione. Dietro tanti buoni propositi e attività meritorie, infatti, Azalea scopre ambigui rapporti di potere e dubbi flussi di danaro, bilanci falsificati, vizi privati pagati dai dipendenti con mesi senza stipendio, “accompagnamenti” (ovvero licenziamenti), contratti illegali, mobbing.
Finora il dibattito si è concentrato su don Silvano, personaggio senza dubbio ispirato a don
Luigi Ciotti, e sul riferimento alle attività condotte dal Gruppo Abele, ma nel romanzo c’è molto di più. Livio Delfino somiglia in modo impressionante al deputato Mattiello, e il moschettiere che da un giorno all'altro inizia a vestirsi bene al direttore di Acmos e Benvenuti in Italia. Per quel che ne so, i riferimenti sono veritieri. Così come è fedele il linguaggio utilizzato nell'ambiente, le espressioni coniate dai capi, da imparare a memoria e da imitare. Anzichè prendere pur comprensibili difese, come fanno Dalla Chiesa e Caselli, perchè non chiedere qual è la verità a quanti ci hanno lavorato e poi sono spariti?
Ma la
potenza di questo lavoro sta nel fatto di avere la forma di un romanzo. Forse in parte mosso da vendetta (chissà...), in un gioco di numeri e fatti espliciti, talvolta imbarazzanti, questo
libro verrà consegnato all’eternità come ogni romanzo,
scavalcando gli stessi personaggi a cui è ispirato, raccontando le verità per cui è stato partorito. Ovvero, l’altra
faccia di chi lavora nel sociale, un tabù che pochi hanno il coraggio di
affrontare. Chi ci è passato, si è interrogato, prova a starci a modo suo, chi lavora dal basso ignaro di certe dinamiche, chi non si fa domande, chi se le fa ma tiene duro per perseguire il proprio obiettivo,
può confermare che Rastello non
parla di un altro mondo, ma del nostro, delle trame oscure che albergano in ogni essere umano. Dove chi si oppone a certi poteri occulti talvolta finisce per replicare le stesse dinamiche con altri deboli.
Quando
lavoravo a Libera Piemonte (alcuni mesi pagata da un altro ente con un progetto fittizio, altri mesi non pagata perchè i soldi avuti da quell'ente come sostegno all'associazione dovevano bastarmi - alla faccia della legalità), e le mie superiori mi accusavano di non avere abbastanza passione (ovvero di non strapparmi i capelli durante le manifestazioni per le
vittime di mafia, di non commuovermi quando parlava don Ciotti, di non
sottostare alle indecenti condizioni di lavoro in nome dell’idea, di rivendicare i miei limiti di orario e una vita
al di fuori del giro), dentro di me avvertivo il disagio di una parodia che
non mi apparteneva, da cui sono fuggita.
Il romanzo
di Rastello mi ha riportato precisamente a quelle sensazioni, per fortuna oggi così lontane. E visto che tanti
provano a smontarlo, io lo difendo. Perché le verità scomode delle nostre vite private, al netto degli annunci pubblici, ci rivelano che non basta etichettarsi
con attività meritorie per definirci santi, o buoni; che fare il bene ci porta inevitabilmente ad accarezzare il male (il
grano e la zizzania sempre coesisteranno, e non riconoscerlo è
da ingenui) e talvolta ci conduce a fare il male in nome del bene. A lui il merito di avercelo ricordato.
Non a caso, molti rivendicano un'antimafia diversa, nonviolenta, anti-mafiosa prima di tutto, ovvero priva di atteggiamenti equivoci anche nella gestione degli affari interni; un'antimafia che guardi al nemico con fermezza e umanità, cercando soluzioni più complesse, e che non si regga su un altro tipo di omertà. Altrimenti, come tante altre necessarie battaglie, essa diventa solo un'ideologia, come suggerisce Rastello, un modo per crearsi un posto nel mondo, raccogliere soldi, e non sfidare il male alla sua radice.
Quando
si chiede all’autore di riassumere il lavoro in una riga, egli afferma: "Se
abbassi lo sguardo critico su te stesso e vesti un’identità virtuosa con troppa
convinzione probabilmente stai stritolando qualcuno”. Questo è solo un assaggio. Per i dettagli, leggete il libro!