Passata l’emozione, è tempo di riflettere a fondo su quanto è
accaduto in Francia e nel mondo in questi giorni. Si potrebbe dire molto, ma io
mi fermo a tre temi: il terrorismo figlio non riconosciuto dell’Europa, l’ambiguità della
libertà di satira, la parzialità del nostro coinvolgimento.
1) Dov’è la novità? La novità è il terrorismo che sta attaccando l’Europa,
dall’aggettivo che ci ostiniamo a considerare straniero, ossia il terrorismo “islamico”.
Non è la prima volta che abbiamo a che fare con dei terroristi nel continente,
ma stavolta li percepiamo come frutto di un’invasione, di un tradimento alla
nostra accoglienza, di un’ingratitudine. Eppure, a conti fatti, qui si parla di
persone che da generazioni vivono e crescono sulla nostra stessa terra, figli
che abbiamo educato nelle nostre scuole e con le nostre politiche di
integrazione, insegnando loro lingua e valori comuni. Inutile quindi continuare
a parlare di immigrati, qui siamo di fronte ad un figlio “diseredato” della
famiglia europea, prodotto della messa in pratica dei nostri valori pacifisti,
di tolleranza, rispetto e solidarietà, venuto su non proprio secondo le nostre
aspettative. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: perché? Dove ho
sbagliato?
E’ vero che – diceva Fallaci – i musulmani non sono tutti
terroristi ma tutti i terroristi oggi sono musulmani, ma questo comporta un’ulteriore
riflessione. Perché una frangia radicale di questa vasta popolazione di
credenti nel mondo si affida a tale interpretazione, semplificata e manipolata,
fino a dare la propria vita nel nome di essa? Cosa rappresenta l’islam radicale
oggi nel palcoscenico geopolitico e come si collega alle numerose divisioni
interne all’islam stesso? È forse un ideale appagante per quanti vivono con
frustrazione un’apparente democrazia e tolleranza (che nasconde tanta
intolleranza e impone un modello unico identitario, di sviluppo, civiltà e
governo a tutto il mondo)? Forse anche un mezzo per catalizzare risorse umane fragili
contro chi ha sempre predicato bene e razzolato male sulla pelle e a casa altrui?
Da europea anche io sogno spesso un mondo in cui tutti i popoli votano e vivono
in un regime democratico, senza violenza e senza massacri, ma so bene che la
realtà è molto più complessa.
2) Secondo, la libertà di satira. Al di là delle facili difese ed
identificazione che ciascuno di noi ha preso, credo si tratti di una libertà
che non a tutti vada giù. Perché la satira mette a nudo gli aspetti del potere –
anche quello a noi piacente, o vicino, laico o religioso che sia – e molto
spesso proprio non ci va giù. Dire che siamo Charlie Hebdo è una frase forte
dunque, che andrebbe pronunciata dopo un’attenta riflessione. Proviamo ad
immaginare. Siamo parte di una setta, e sulla prima pagina di Charlie Hebdo disegnano
il fondatore o leader di questa setta (movimento, organizzazione), in postura o
atteggiamento ridicolo, che dice qualcosa secondo noi di inaccettabile (ma che
dovrebbe impormi quantomeno una riflessione critica, o strapparmi una risata).
Pensiamoci davvero: siamo sicuri di essere Charlie Hebdo? La satira, quando
utilizza metodi pacifici (la matita) ha diritto di dire quel che vuole, ci
piaccia o meno, pur sapendo che il confine tra satira e diffamazione è labile. Tuttavia,
se non vi fosse motivo per fare della satira, nessuno perderebbe tempo a
mostrare il lato oscuro della mia setta in maniera spiritosa. Sta poi al
singolo e alla sua saggezza – magari anche alla sua cultura -, capire come
affrontare la satira, quando coglierne sollecitazioni perché intelligente, e
quando ignorarla completamente, perché gratuita, malvagia e stupida.
La verità è che la satira ci piace solo quando colpisce il nostro
nemico, mentre siamo pronti ad addurre mille motivazioni ogniqualvolta ci
sentiamo colpiti al cuore. Tuttavia, la satira si può sempre usare per fini
politici. Mi lascio provocare da ciò che scrive un amico musulmano: “Perché Charlie
Hebdo [e oggi tutti noi con loro] si ostina a pubblicare vignette su un uomo
vissuto secoli fa [Maometto]? Un gruppo dice: è la libertà di stampa; io dico,
cazzate! Tanti di loro amano provocare e usare la sensibilità islamica verso l’immagine,
come fosse calcio politico, di propaganda a poco prezzo circa l’arretratezza
dei musulmani e il bisogno di civilizzarli. Il secondo gruppo dice: siamo
offesi; io dico, cazzate! Dovresti preoccuparti più del benessere sociale,
economico e politico della tua società piuttosto che urlare di fronte alla
vignetta di un uomo morto tantissimi anni fa”.
Credo che al fondo di questo uso strumentale – di stampa e
terroristi – vi sia sempre la battaglia per il predominio di una civiltà, e la
frustrazione di chi, vivendo fuori da entrambi questi fronti, e magari in
Occidente con radici orientali, si sente via via privare della propria
identità, ossia dell’orgoglio per il fascino e l’antica ricchezza di una
civiltà florida, tollerante e geniale che qui pochi ancora studiano, sempre più
etichettata come retrograda e antimoderna perché privata dei suoi migliori talenti.
Questi vengono mandati a studiare in Occidente, e vivono un complesso d’inferiorità
che si porteranno fino alla fine della loro vita pubblica, o sono combattuti
tra il diventare difensori dell’una o dell’altra parte, senza avere modo di
coltivare la propria identità. La Primavera araba è stata l’emblema di questa
battaglia, fomentata dall’Occidente con le sue illusioni di democrazia e
repressa nel sangue da regimi o da guerre civili, perché la scelta è netta e
non può tollerare ibridi. Così, i difensori di questa antica e straordinaria
civiltà, ridotta ad una sua interpretazione manipolata, conservatrice,
antimoderna e misogina, diventano i potenti del mondo arabo, ossia sauditi ed
emirati arabi, che insieme all’Occidente hanno creato il grande mostro. Un mostro che ha perso la propria testa, la propria storia, il
proprio orgoglio, e si rifugia in un’idea semplice di religione per ritrovare
una casa, e nella violenza - arma dei deboli - per ritrovare un motivo per
esistere e sentirsi vivo.
3) Terzo, la relatività del coinvolgimento emotivo. Quanto vale un morto nel nostro mondo “civilizzato”,
e quanto altrove? Di conflitti nel mondo ce ne sono purtroppo moltissimi. Senza
prenderli uno per uno, basterebbero due esempi in qualche modo collegati ai
fatti di Parigi. In Nigeria, proprio nei giorni degli attentati, Boko Haram
(altro gruppo terrorista islamico) si accingeva a mietere duemila vittime nel
silenzio mondiale. In Siria – una Siria in cui, nel nostro immaginario, c’è
solo l’Islam State, e invece no, c’è ancora e prima di tutto un regime
sanguinario guidato da Assad e da esponenti della setta alawita – si continua a
morire, e così pure nei campi profughi dei paesi vicini, dove sta nevicando, e
le famiglie vivono senza elettricità e senza riscaldamento. La maggioranza di
queste vittime è musulmana, per giunta sunnita, lo stesso ceppo dei combattenti
dell’IS - dov’è qui Giuliano Ferrara con le sue crociate? I conti non tornano. Mi
fa rabbrividire questo silenzio assordante sul genocidio siriano – e il suo
conseguente esodo - che sta svuotando completamente un paese ricco di storia,
cultura e dignità nell’indifferenza generale.
Ci sarebbe molto altro su cui riflettere, assenze e presenze
stonate tra i leader di stato alla manifestazione di ieri a Parigi, o i disastri
dell’intelligence.