lunedì 1 luglio 2013

I bambini del Sahel

Sousse, Tunisia.

Sulla scogliera di Mahdia, una piccola cittadina sulla costa del Sahel, turistica ma non troppo, dove vige un ferreo campanilismo, tre bambini giocano da un'ora per creare un qualcosa che all'occhio del passante non ha alcun significato nè scopo, usando una rete da pescatore e cinque bottiglie. S'ingegnano, fanno prove, mormorano che c'è bisogno di una quarta persona per riuscire nell'impresa. Poi, finalmente, la prova. Ma è un fallimento. Forse vogliono imitare i pescatori, ma in fondo non sanno bene come si fa. Affranti, vanno via. 

E' un'immagine splendida, come tante altre in questi paesini di mare. Mi ricorda la mia infanzia, quando giocavamo tutto il giorno - salvo il momento della siesta - nelle strade, rischiando continuamente secchiate d'acqua dalle vecchine che imploravano silenzio, la mamma che solo in casi di urgenza si affacciava a controllare che non ci si picchiasse troppo, le ginocchia sbucciate, le alleanze cangianti, l'aria e il sole, le marachelle. 

Oggi di queste scene se ne vedono davvero poche in Europa. I bambini sono proprietà privata, il timore dei pedofili (una delle varie mode dei mass-media) li costringe ad una vita da reclusi, davanti ad una play-station e ad una montagna di giochi super-tech che inibiscono la creatività, sotto l'occhio vigile dei genitori che non li mollano per più di un minuto. Eppure noi eravamo "eserciti" di bambini, aggregavamo interi quartieri, con i genitori a casa a fare i loro affari, costruivamo, piantavamo, andavamo spesso in campagna, inventavamo storie e spettacoli teatrali, ci colpivamo coi palloni e ci prendevamo a schiaffi, eravamo pieni di cicatrici, graffi e ferite a forza di pedalare, pattinare, correre. 

Rovescio questa immagine, la riporto al mondo degli adulti. Viviamo nello stesso dilemma. Rinchiusi in casa e attaccati al pc, abbiamo perso il contatto con la natura e la forza, l'energia, che la vita all'aria aperta può dare. Fatichiamo a creare, ad inventare, a mescolare il buono che ci arriva dal progresso con tutto questo. 

Io, per oggi, me ne sto sul molo di Tboulba ad ascoltare Léo Ferrè, col vento che rende il sole più sopportabile, e come per magia lo stress accumulato scompare, e non rimpiango di non essere più partita per Jerba.

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