Minervino Murge, Italia.
Avevo in mente un altro post ieri, divertente, in cui avrei descritto il viaggio in aereo da Londra a Bari, con l’occhio di una pugliese cittadina del mondo che guarda con affetto e un pizzico d’ironia le abitudini dei propri conterranei.
Avevo in mente un altro post ieri, divertente, in cui avrei descritto il viaggio in aereo da Londra a Bari, con l’occhio di una pugliese cittadina del mondo che guarda con affetto e un pizzico d’ironia le abitudini dei propri conterranei.
Invece
no, cambio argomento, ne scelgo uno più serio, che mi ha suscitato l’articolo
de L’Internazionale di questa settimana sulle condizioni di lavoro nel
magazzino Amazon di Swansea in Galles. Che mi ha dato molto da riflettere sui
paradossi della società capitalista in cui viviamo. Dove vogliamo comprare di
tutto, anche roba inutile, standocene comodamente seduti a casa, pagandola
addirittura meno di quanto costa in un negozio (senza spese di trasporto, in
UK). Senza pensare al “come” questo incredibile affare sia possibile.
È
possibile perché un’azienda sfrutta ai limiti dell’umano i suoi dipendenti, in
maggioranza precari, imponendo condizioni che ci ricordano l’Ottocento o altri
continenti, sfruttando la disperazione dovuta alla fine del lavoro come lo
conoscevamo, fine che non è dovuta solo alla crisi, perché, finanza a parte, la
crisi perenne in un certo senso la stiamo creando noi, con le nostre scelte di
vita, di consumo, di investimento. È possibile perché Amazon attua concorrenza
sleale ed evade le tasse.
Chi
lavora in Amazon una volta aveva un’attività in proprio in cui credeva e da cui
guadagnava molto di più. Questo gioco precario ci sta portando nel baratro. Perché
siamo, o ci sentiamo a volte, più poveri, e consumiamo però più roba inutile
comprandola in posti in cui lavorano persone che se fossero nostra sorella o
nostro cugino saremmo pronti a fare denuncia, e gli diremmo che quella non è
vita, e che forse sarebbe meglio inventarselo, un altro lavoro.
Ancora
una volta, credo che dovremmo dire di no, così come dovremmo dire di no a Primark
e tanti altri che commissionano vestiti in Bangladesh alle condizioni (di
lavoro e sicurezza) che abbiamo conosciuto solo dopo una immane tragedia. Sembrerà
anacronistico, ma il cappello di lana di cui ho bisogno quasi quasi me lo
faccio all’uncinetto, visto che ne sono capace.
Il
pensiero di questa fabbrica nel cuore dell’apparente benessere della nostra
civiltà mi fa orrore. D’ora in poi, io che pure ho un account Amazon, proverò
sul serio a non comprare, o a comprare solo e-books, che non comportano lavoro
manuale, nella scelta, nell’impacchettamento e nella consegna.
A
Natale, se proprio non resisti alla tentazione del consumare cose inutili,
cerca di non comprare su Amazon. Se proprio hai bisogno di un oggetto che non
puoi permetterti altrove, almeno rinvia l’acquisto al dopo-Natale, quando i
ritmi di questi schiavi si riducono.
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