giovedì 27 marzo 2014

All'estero non sempre è meglio: quello che i giornali non dicono

In questo post, che riassume alcuni miei post precedenti, vengono messi volutamente in luce gli aspetti negativi della mia vita da expat, per dire quella parte di verità che così poco traspare dai media quando si raccontano le storie di chi vive all'estero, storie opportunamente selezionate, generalmente "vincenti". Non è mia intenzione negare gli aspetti positivi che ho raccontato altrove. Premessa doverosa, perciò, è che ogni singola esperienza può essere diversa a seconda di età, spirito, budget, ambito di lavoro, incontri, fortuna, fase di vita, priorità del momento.


Vivo da un anno e mezzo lontano dall’Italia e non ci torno spesso. Ero andata via perché stanca del provincialismo, del precariato, del pessimismo. Vivevo a Torino, la città che più ho amato (più di Roma, di Parigi, di Bruxelles, dove ho pure ho vissuto per un po' nel frattempo) e che ad un certo punto non sopportavo più. Per strada, la gente era imbruttita. Non c’era più fiducia, non c’era più speranza, la crisi le aveva mangiato l'anima. Ero arrivata da un paesino della Puglia dieci anni prima, ma anche Torino era diventata troppo piccola, troppo uguale all’Italietta viziata, troppo limitata, troppo autolesionista.

Sono andata via senza reali opportunità, ma con la voglia di vedere qualcosa di diverso, e prendermi del tempo per pensare e migliorare l’inglese. Ho conosciuto moltissime persone, italiani e non, e visitato, per lavoro (occasionale), diversi paesi europei e mediterranei (Turchia, Egitto, Grecia, Germania). Ho vissuto per alcuni mesi a Londra, a Susa in Tunisia, a Glasgow in Scozia. Ogni volta che tornavo in Italia, nonostante l’entusiasmo delle nuove esperienze, mi assalivano dubbi, che ora spiegherò.

Dall’Italia si guarda all’estero come al mondo delle favole. Tutto funziona, si trova lavoro, ti trattano benissimo, il tuo merito viene sempre riconosciuto. Dopo un po’ questa retorica (che all’inizio colpisce, effettivamente) l’ho trovata un po’ falsa e mi ha decisamente stancato. Complice sicuramente l’avanzata di una crisi che ha superato ogni immaginazione. Questa è quella parte di storia che si legge poco sui giornali, perché non fa gola e non alimenta la retorica che l’Italia è sempre peggiore.


Londra: una città, una nazione, la meta da sogno degli italiani in fuga

A Londra se arrivi con un titolo italiano che non sia ingegneria non è così facile trovare lavoro. In più, oltre al fatto di essere dannatamente cara, da un anno la massa di sudeuropei che ha invaso la capitale britannica ha creato un ingorgo nei settori in cui anni addietro si riversavano in massa (e abbastanza facilmente) gli immigrati che arrivavano senza conoscere la lingua, come la ristorazione. Anche a Londra ti assumono in nero, e/o ti pagano a provvigioni, o una miseria; anche a Londra (gli italiani che hanno fatto fortuna) ti chiedono (mio primo colloquio in assoluto!) se sei impegnata, per tastare libertà di movimento e possibilmente allontanare spettri di gravidanze. Anche a Londra fai stage a gratis (e ti pagano solo le spese di trasporto e pranzo, che comunque sono un salasso!), illudendoti che troverai di meglio. Anche a Londra, dopo aver preso un Master nelle migliori università del mondo, puoi aspettare mesi prima di trovare un impiego (supportato però dalla Job Seekers Allowance, che da noi non c’è, ma che, considerando i costi di vita della capitale, non consente lo stesso una vita indipendente). A Londra sei disposto a fare, nella speranza di un futuro diverso, dei lavori che in Italia non faresti mai. Anche a Londra ci sono tanti disoccupati, sia inglesi che stranieri, che attendono la svolta. E molti di quelli occupati che fanno orari da schiavi con paghe da fame (esempi fra tutti i kitchen-porter e venditori asiatici degli shops aperti 24h) sono comunque al di sotto del livello di povertà, considerato il costo della vita. Anche a Londra (ma non solo, per fortuna) hanno finalmente importato la parola e il concetto di “precariato”. Ho fatto un’intervista (per me indimenticabile) al professore che ha questo merito. Come tutti qui, risponde immediatamente alle email e organizza la chiamata via skype. Sì, anche lui che per vent’anni è stato consulente dell’ILO.

D’altro canto, a Londra puoi fare anche palate di soldi, o semplicemente vivere bene e costruirti una carriera, se lavori nel settore giusto, se hai il marito giusto o se hai i genitori giusti (meglio se in Parlamento) che ti paghino una buona Università o che, per fuggire al Fisco, decidano d'investire nell’immobiliare, e ti comprino una casa nel quartiere Kensington o Islington (perché si può essere secondi solo a William e Kate!). Ma questa è una storia che conosciamo bene e che viene adeguatamente rappresentata nei media (senza però raccontare i retroscena e i vantaggi di partenza), al contrario di quest’altra, quella di tanta gente comune, figlia di nessuno, che non ce la fa secondo la retorica corrente, non perchè peggiore ma perchè tutto il mondo è paese.

Così come non posso negare il fatto che Londra valga l’esperienza in sé, perché è un mondo nuovo, dinamico, appassionante e variegato che, se possibile, bisogna sperimentare e conoscere. Nonostante le (imponenti) diseguaglianze, questa città continua a colpire l’immaginario perché offre grandi sogni, e a tratti anche barlumi di normalità. Amicizia, amore, politica, passioni. Vertigine e solitudine. Shopping e natura. 

Pur essendoci rimasta relativamente pochi mesi, sette – e solo grazie all’impagabile ospitalità di una coppia di amici –, ho conosciuto da vicino le abitudini degli autoctoni vivendo per due mesi in una famiglia inglese (dove si cena seduti tristemente sul divano a guardare la tv, non a tavola), ho reimparato ad appassionarmi alla politica italiana grazie al PD Londra, ho consumato troppe suole per conoscere ed amare gli angoli sconosciuti e poco turistici, ho provato l’ebbrezza di entrare nell’esercito dei job seekers al servizio della rigida “governamentalità” dei job centers. Ma soprattutto ho capito che la parte migliore, più consona al mio spirito, era fuori Londra (scoperta non banale, visto che molti abitanti o visitatori non conoscono il resto del Regno Unito). Così sono partita, alla prima occasione di lavoro. Ma non per Bristol. Per la Tunisia.


Susa e Tunisia: dove gli italiani vanno a godersi la pensione

La Tunisia, così inneggiata (non solo in Italia) nella retorica rivoluzionaria della primavera araba, così amata dai connazionali, in quella fase era ancora abbastanza pericolosa e instabile. Sempre per rovesciare i credo italici, questa terra si è rivelata un campo di battaglia tra americani e tedeschi sul fronte rivoluzionario, e tra integralisti e moderati/laici sul fronte religioso e politico. Gli italiani in fondo l’amano perché viverci costa poco e perché vengono trattati come degli déi. È vero che sempre più connazionali ci si trasferiscono in tempo di pensione, perché anche con 500 euro a testa (oltre 1000 dinari tunisini) si conduce una vita dignitosa, e poi farsi costruire una casa costa poco (tanto chi se ne frega della cementificazione sfrenata! Moltissimi europei hanno qui la seconda casa, disabitata per gran parte dell’anno). Detto questo, è vero che in Tunisia ci sono alcuni angoli incantevoli (Kelibia e Mahadia su tutte), ma è decisamente sporca e inquinata da buste e bottiglie di plastica. E anche lì ho rimpianto e riapprezzato il nostro verde, conservato dignitosamente anche nei posti meno curati, non solo nei giardini degli ambasciatori a Sidi Bou Said.


Glasgow, dove può capitarti di morire a sessant’anni (come in tempo di guerra)

Quando ho deciso di riprendere a studiare per un anno, ho scelto Glasgow perché mi era piaciuta. Mi ricordava per certi versi Torino: angoli molto belli alternati a palazzi bruttissimi, spirito tenacemente popolare, e in più tanta buona musica. Glasgow conserva quella rudezza british (irritante quanto affascinante) che è quasi scomparsa a Londra. Qui c’è meno “plastica”, nel bene e nel male. Puoi andare ancora ad un concerto gratis, o a 5 pound, e suoni nei locali anche se sei brutto, hai sessant’anni e indossi una tuta (ah, puoi tenere pure delle lectures universitarie in tuta, se così ti gira). Anche qui però c’è tantissima disoccupazione, e se sei fortunato finisci a lavorare in un call centre (ma va?!). Le statistiche dicono che nelle zone più povere della città (senza andare troppo in periferia), ad est, si muore in media a 56 anni. Per una congiuntura che nessuno sa ancora spiegarsi, il cosiddetto “effetto Glasgow”: alcol, droga, pessima alimentazione (?). Lo stato spende miliardi per programmi di educazione alimentare, puntualmente progettati e valutati da esperti accademici che esultano se un bambino capisce l’importanza di mangiare ogni tanto una mela e un po’ di verdura. Qui a Natale le famiglie passano a prendere il pranzo pronto in rosticceria. A me, che vengo da un paesino che sforna cucina e sapori di prima qualità, tutto questo sembra assurdo. E se hai dei figli, scordati di uscire la sera se non vuoi reclutare una baby-sitter: i minori di 18 anni non sono ammessi praticamente dovunque, neppure accompagnati.


Potrei continuare all’infinito, e non perché mi diverta sottolineare le criticità (vissute da me o dai miei amici) dei posti in cui ho vissuto, o in cui sono stata di passaggio (potrei anche raccontare di Berlino, volendo), interrogando i migranti su come vivono realmente. E' che si parla solo di buoni stipendi, carriere e trattamenti privilegiati per gli italiani, sempre e comunque, e non è vero.

È che stando via mi è successa anche una cosa curiosa, che ritrovo prepotentemente nei discorsi di Matteo Renzi. Ho reimparato a guardare la bellezza dell’Italia, quella che stiamo svendendo a russi e compratori vari, e il valore di tante sane tradizioni, grazie al confronto con queste realtà. E soprattutto grazie agli occhi e alla bocca degli stranieri stessi. Che amano la nostra terra, mangiano un gelato e si sentono in Paradiso, sono capaci di attendere per mesi un visto pur di passarci, o farsi fotografare sulla gondola o davanti alla fontana di Trevi, e a volte conoscono posti che a te mancano. In fondo capisci il valore delle cose quando percepisci che le stai perdendo. E l’Italia è troppo bella e ricca di umanità, cultura, arte, cucina e tradizioni popolari per fare la fine che le vorrebbero far fare.

Se c’è una cosa che ho scoperto valga davvero una partenza, è appunto la forza del confronto, che abbatte il pregiudizio, e ti riporta alla realtà delle cose e al loro valore. Il valore delle relazioni, del cibo buono e sano, delle stagioni, del tempo che passa senza restare soli, anche se lo Stato non ti assiste materialmente. Il valore estetico delle nostre diversità regionali, architettoniche, culturali, dialettali. Il valore delle piccole battaglie, che devi esser pronto a condurre nel paesino africano come in quello del Sud Italia.

Così, un semplice tramonto sul Monte Vulture (come quello qui sotto), dalla stessa visuale che ho avuto per diciannove anni, riacquista una bellezza inaudita, perché viene assaporato con la stessa emozione e meraviglia accumulata in viaggio. Tutte cose che, quando scopri che si è precari dovunque, acquistano un valore immenso, ti fanno star bene dove sei ma con una nuova, inaspettata, nostalgia dell’Italia. 

Se tanti di quelli che volessero tornare potessero farlo, pur rinunciando a qualcosa, e avessero spazio per mettere a frutto creatività e innovazione, così apprezzate tra chi non ce le ha (i così tanto elogiati cinesi, per esempio), se tornasse ad esserci un clima di fiducia, l’Italia sarebbe davvero il paese più bello del mondo.



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