In questo post, che riassume alcuni miei post precedenti, vengono messi volutamente in luce gli aspetti negativi della mia vita da expat, per dire quella parte di verità che così poco traspare dai media quando si raccontano le storie di chi vive all'estero, storie opportunamente selezionate, generalmente "vincenti". Non è mia intenzione negare gli aspetti positivi che ho raccontato altrove. Premessa doverosa, perciò, è che ogni singola esperienza può essere diversa a seconda di età, spirito, budget, ambito di lavoro, incontri, fortuna, fase di vita, priorità del momento.
Vivo da
un anno e mezzo lontano dall’Italia e non ci torno spesso. Ero andata via
perché stanca del provincialismo, del precariato, del pessimismo. Vivevo a
Torino, la città che più ho amato (più di Roma, di Parigi, di Bruxelles, dove ho pure ho vissuto per un po' nel frattempo) e che ad un certo punto non sopportavo più. Per strada, la gente era imbruttita. Non c’era più fiducia, non c’era più speranza, la crisi le aveva mangiato l'anima. Ero arrivata da un paesino della Puglia dieci anni prima, ma anche
Torino era diventata troppo piccola, troppo uguale all’Italietta viziata, troppo limitata, troppo autolesionista.
Sono andata
via senza reali opportunità, ma con la voglia di vedere qualcosa di diverso, e
prendermi del tempo per pensare e migliorare l’inglese. Ho conosciuto
moltissime persone, italiani e non, e visitato, per lavoro (occasionale), diversi paesi europei e
mediterranei (Turchia, Egitto, Grecia, Germania). Ho vissuto per alcuni mesi a
Londra, a Susa in Tunisia, a Glasgow in Scozia. Ogni volta che tornavo in
Italia, nonostante l’entusiasmo delle nuove esperienze, mi assalivano dubbi,
che ora spiegherò.
Dall’Italia
si guarda all’estero come al mondo delle favole. Tutto funziona, si trova
lavoro, ti trattano benissimo, il tuo merito viene sempre riconosciuto. Dopo un
po’ questa retorica (che all’inizio colpisce, effettivamente) l’ho trovata un
po’ falsa e mi ha decisamente stancato. Complice sicuramente l’avanzata di una
crisi che ha superato ogni immaginazione. Questa è quella parte di storia che
si legge poco sui giornali, perché non fa gola e non alimenta la retorica che l’Italia
è sempre peggiore.
Londra: una città, una nazione, la meta da sogno degli italiani in fuga
A Londra
se arrivi con un titolo italiano che non sia ingegneria non è così facile
trovare lavoro. In più, oltre al fatto di essere dannatamente cara, da un anno la massa di sudeuropei che ha invaso la
capitale britannica ha creato un ingorgo nei settori in cui anni addietro si
riversavano in massa (e abbastanza facilmente) gli immigrati che arrivavano
senza conoscere la lingua, come la ristorazione. Anche a Londra ti assumono in
nero, e/o ti pagano a provvigioni, o una miseria; anche a Londra (gli italiani
che hanno fatto fortuna) ti chiedono (mio primo colloquio in assoluto!) se sei
impegnata, per tastare libertà di movimento e possibilmente allontanare spettri
di gravidanze. Anche a Londra fai stage a gratis (e ti pagano solo le spese di
trasporto e pranzo, che comunque sono un salasso!), illudendoti che troverai di
meglio. Anche a Londra, dopo aver preso un Master nelle migliori università del
mondo, puoi aspettare mesi prima di trovare un impiego (supportato però dalla
Job Seekers Allowance, che da noi non c’è, ma che, considerando i costi di vita
della capitale, non consente lo stesso una vita indipendente). A Londra sei disposto a fare, nella speranza di un futuro diverso, dei lavori che in Italia non faresti mai. Anche a Londra
ci sono tanti disoccupati, sia inglesi che stranieri, che attendono la svolta. E
molti di quelli occupati che fanno orari da schiavi con paghe da fame (esempi
fra tutti i kitchen-porter e venditori asiatici degli shops aperti 24h) sono
comunque al di sotto del livello di povertà, considerato il costo della vita. Anche a
Londra (ma non solo, per fortuna) hanno finalmente importato la parola e il
concetto di “precariato”. Ho fatto un’intervista (per me indimenticabile) al professore che ha questo merito. Come tutti qui, risponde
immediatamente alle email e organizza la chiamata via skype. Sì, anche lui
che per vent’anni è stato consulente dell’ILO.
D’altro
canto, a Londra puoi fare anche palate di soldi, o semplicemente vivere bene e
costruirti una carriera, se lavori nel settore giusto, se hai il marito giusto
o se hai i genitori giusti (meglio se in Parlamento) che ti paghino una buona Università
o che, per fuggire al Fisco, decidano d'investire nell’immobiliare, e ti comprino una casa nel quartiere Kensington o Islington (perché si può essere
secondi solo a William e Kate!). Ma questa è una storia che conosciamo bene e
che viene adeguatamente rappresentata nei media (senza però raccontare i retroscena e i vantaggi di partenza), al contrario di quest’altra,
quella di tanta gente comune, figlia di nessuno, che non ce la fa secondo la
retorica corrente, non perchè peggiore ma perchè tutto il mondo è paese.
Così come
non posso negare il fatto che Londra valga l’esperienza in sé, perché è un
mondo nuovo, dinamico, appassionante e variegato che, se possibile, bisogna sperimentare e
conoscere. Nonostante
le (imponenti) diseguaglianze, questa città continua a colpire l’immaginario perché offre grandi sogni, e a tratti anche barlumi di
normalità. Amicizia, amore, politica, passioni. Vertigine e solitudine. Shopping
e natura.
Pur essendoci rimasta relativamente pochi mesi, sette – e solo grazie all’impagabile ospitalità di una coppia di amici –, ho conosciuto da vicino le
abitudini degli autoctoni vivendo per due mesi in una famiglia inglese (dove si cena seduti tristemente sul divano a guardare la tv, non a tavola), ho reimparato ad appassionarmi
alla politica italiana grazie al PD Londra, ho consumato troppe suole per conoscere ed
amare gli angoli sconosciuti e poco turistici, ho provato l’ebbrezza di entrare nell’esercito dei
job seekers al servizio della rigida “governamentalità” dei job centers. Ma soprattutto ho capito che la parte migliore, più consona al mio spirito, era
fuori Londra (scoperta non banale, visto che molti abitanti o visitatori non conoscono il resto del Regno Unito). Così sono partita, alla prima occasione di lavoro. Ma non
per Bristol. Per la Tunisia.
Susa e
Tunisia: dove gli italiani vanno a godersi la pensione
La Tunisia, così
inneggiata (non solo in Italia) nella retorica rivoluzionaria della primavera
araba, così amata dai connazionali, in quella fase era ancora abbastanza
pericolosa e instabile. Sempre per rovesciare i credo italici, questa terra si
è rivelata un campo di battaglia tra americani e tedeschi sul fronte
rivoluzionario, e tra integralisti e moderati/laici sul fronte religioso e
politico. Gli italiani in fondo l’amano perché viverci costa poco e perché vengono
trattati come degli déi. È vero che sempre più connazionali ci si trasferiscono
in tempo di pensione, perché anche con 500 euro a testa (oltre 1000 dinari
tunisini) si conduce una vita dignitosa, e poi farsi costruire una casa costa
poco (tanto chi se ne frega della cementificazione sfrenata! Moltissimi europei
hanno qui la seconda casa, disabitata per gran parte dell’anno). Detto questo,
è vero che in Tunisia ci sono alcuni angoli incantevoli (Kelibia e Mahadia su tutte), ma è decisamente sporca e
inquinata da buste e bottiglie di plastica. E anche lì ho rimpianto e
riapprezzato il nostro verde, conservato dignitosamente anche nei posti meno
curati, non solo nei giardini degli ambasciatori a Sidi Bou Said.
Glasgow,
dove può capitarti di morire a sessant’anni (come in tempo di guerra)
Quando ho
deciso di riprendere a studiare per un anno, ho scelto Glasgow perché mi era
piaciuta. Mi ricordava per certi versi Torino: angoli molto belli alternati a
palazzi bruttissimi, spirito tenacemente popolare, e in più tanta buona musica.
Glasgow conserva quella rudezza british (irritante quanto affascinante) che è
quasi scomparsa a Londra. Qui c’è meno “plastica”, nel bene e nel male. Puoi andare ancora ad un concerto gratis, o a 5 pound, e suoni nei locali anche se sei brutto, hai
sessant’anni e indossi una tuta (ah, puoi tenere pure delle lectures universitarie in
tuta, se così ti gira). Anche qui però c’è tantissima disoccupazione, e se sei
fortunato finisci a lavorare in un call centre (ma va?!). Le statistiche dicono
che nelle zone più povere della città (senza andare troppo in periferia), ad
est, si muore in media a 56 anni. Per una congiuntura che nessuno sa ancora
spiegarsi, il cosiddetto “effetto Glasgow”: alcol, droga, pessima alimentazione
(?). Lo stato spende miliardi per programmi di educazione alimentare,
puntualmente progettati e valutati da esperti accademici che esultano se un
bambino capisce l’importanza di mangiare ogni tanto una mela e un po’ di verdura. Qui a
Natale le famiglie passano a prendere il pranzo pronto in rosticceria. A me,
che vengo da un paesino che sforna cucina e sapori di prima qualità, tutto
questo sembra assurdo. E se hai dei figli, scordati di uscire la sera se non
vuoi reclutare una baby-sitter: i minori di 18 anni non sono ammessi
praticamente dovunque, neppure accompagnati.
Potrei continuare
all’infinito, e non perché mi diverta sottolineare le criticità (vissute da me o dai miei amici) dei posti in cui ho vissuto,
o in cui sono stata di passaggio (potrei anche raccontare di Berlino, volendo), interrogando i migranti su come vivono
realmente. E' che si parla solo di buoni stipendi, carriere e trattamenti privilegiati per gli italiani, sempre e comunque, e non è vero.
È che stando via mi è successa anche una cosa curiosa, che ritrovo
prepotentemente nei discorsi di Matteo Renzi. Ho reimparato a guardare la
bellezza dell’Italia, quella che stiamo svendendo a russi e compratori vari, e
il valore di tante sane tradizioni, grazie al confronto con queste realtà. E soprattutto
grazie agli occhi e alla bocca degli stranieri stessi. Che amano la nostra
terra, mangiano un gelato e si sentono in Paradiso, sono capaci di attendere
per mesi un visto pur di passarci, o farsi fotografare sulla gondola o davanti alla
fontana di Trevi, e a volte conoscono posti che a te mancano. In fondo capisci il valore delle cose quando percepisci che
le stai perdendo. E l’Italia è troppo bella e ricca di umanità, cultura, arte,
cucina e tradizioni popolari per fare la fine che le vorrebbero far fare.
Se c’è
una cosa che ho scoperto valga davvero una partenza, è appunto la forza del confronto,
che abbatte il pregiudizio, e ti riporta alla realtà delle cose e al loro
valore. Il valore delle relazioni, del cibo buono e sano, delle stagioni, del
tempo che passa senza restare soli, anche se lo Stato non ti assiste materialmente.
Il valore estetico delle nostre diversità regionali, architettoniche,
culturali, dialettali. Il valore delle piccole battaglie, che devi esser pronto
a condurre nel paesino africano come in quello del Sud Italia.
Se tanti di
quelli che volessero tornare potessero farlo, pur rinunciando a qualcosa, e
avessero spazio per mettere a frutto creatività e innovazione, così apprezzate
tra chi non ce le ha (i così tanto elogiati cinesi, per esempio), se tornasse ad esserci un clima di fiducia, l’Italia sarebbe davvero il paese più bello del mondo.
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