giovedì 19 dicembre 2013

Per Natale facciamoci un regalo: non compriamo su Amazon

Minervino Murge, Italia.

Avevo in mente un altro post ieri, divertente, in cui avrei descritto il viaggio in aereo da Londra a Bari, con l’occhio di una pugliese cittadina del mondo che guarda con affetto e un pizzico d’ironia le abitudini dei propri conterranei.


Invece no, cambio argomento, ne scelgo uno più serio, che mi ha suscitato l’articolo de L’Internazionale di questa settimana sulle condizioni di lavoro nel magazzino Amazon di Swansea in Galles. Che mi ha dato molto da riflettere sui paradossi della società capitalista in cui viviamo. Dove vogliamo comprare di tutto, anche roba inutile, standocene comodamente seduti a casa, pagandola addirittura meno di quanto costa in un negozio (senza spese di trasporto, in UK). Senza pensare al “come” questo incredibile affare sia possibile.

È possibile perché un’azienda sfrutta ai limiti dell’umano i suoi dipendenti, in maggioranza precari, imponendo condizioni che ci ricordano l’Ottocento o altri continenti, sfruttando la disperazione dovuta alla fine del lavoro come lo conoscevamo, fine che non è dovuta solo alla crisi, perché, finanza a parte, la crisi perenne in un certo senso la stiamo creando noi, con le nostre scelte di vita, di consumo, di investimento. È possibile perché Amazon attua concorrenza sleale ed evade le tasse.

Chi lavora in Amazon una volta aveva un’attività in proprio in cui credeva e da cui guadagnava molto di più. Questo gioco precario ci sta portando nel baratro. Perché siamo, o ci sentiamo a volte, più poveri, e consumiamo però più roba inutile comprandola in posti in cui lavorano persone che se fossero nostra sorella o nostro cugino saremmo pronti a fare denuncia, e gli diremmo che quella non è vita, e che forse sarebbe meglio inventarselo, un altro lavoro.

Ancora una volta, credo che dovremmo dire di no, così come dovremmo dire di no a Primark e tanti altri che commissionano vestiti in Bangladesh alle condizioni (di lavoro e sicurezza) che abbiamo conosciuto solo dopo una immane tragedia. Sembrerà anacronistico, ma il cappello di lana di cui ho bisogno quasi quasi me lo faccio all’uncinetto, visto che ne sono capace.
Il pensiero di questa fabbrica nel cuore dell’apparente benessere della nostra civiltà mi fa orrore. D’ora in poi, io che pure ho un account Amazon, proverò sul serio a non comprare, o a comprare solo e-books, che non comportano lavoro manuale, nella scelta, nell’impacchettamento e nella consegna.

A Natale, se proprio non resisti alla tentazione del consumare cose inutili, cerca di non comprare su Amazon. Se proprio hai bisogno di un oggetto che non puoi permetterti altrove, almeno rinvia l’acquisto al dopo-Natale, quando i ritmi di questi schiavi si riducono. 

sabato 26 ottobre 2013

Dialogo immaginario col mio coinquilino

Persino in questo paese relativamente libero, gli uomini, nella maggior parte (per pura ignoranza ed errore), sono così presi dalle false preoccupazioni e dai più superflui e grossolani lavori per la vita, che non possono cogliere i frutti più saporiti che questa offre loro: le fatiche eccessive cui si sottopongono hanno reso le loro dita troppo impacciate e tremanti. In effetti, un uomo che lavora duramente non ha abbastanza tempo per conservare giorno per giorno la propria vera integrità: non può permettersi di mantenere con gli altri uomini i più nobili rapporti, perché il suo lavoro sarebbe deprezzato sul mercato; ha tempo solo per essere una macchina.(Walden, H.D. Thoreau)



Glasgow (Scozia), 25 Ottobre 2013

A volte, come tanti, ho paura del futuro. Però mi riprendo in fretta, e oggi già sto meglio. Così tra letture, e nelle lunghe passeggiate quotidiane, ho immaginato una sorta di dialogo col mio coinquilino, prototipo della vittima di questo tempo.

Quarant’anni, pochi amici, forse in passato ha avuto problemi con l’alcol e/o con la polizia, tanto che, unico nel Regno Unito, al pub beve succo di frutta. Come me. Non lavora, se non a periodi alterni, e vive – a parte del mio affitto - con la JSA, la Job Seekers Allowance, un contributo offerto dallo stato mentre i Job Center ti aiutano a cercare lavoro, a volte per mesi o anni. Vorrei un dialogo maggiore con lui, ma non capisco francamente un accidenti quando parla con quello strettissimo – e direi irritante - accento “glaswegian”.

Qui l’opinione pubblica è da sempre divisa sul tema dei social benefit. Chi lavora accusa i long-term JSA di vivere a spese dello stato; chi non lavora e vive con il misero contributo per vitto e alloggio sogna altro. Giudichiamo perché qui lo stato è la versione britannica della famiglia italiana, quando c’è, che da noi garantisce in vari modi la stabilità ed aiuta ad esorcizzare la paura dell’ignoto…

Ribadiamo alcuni punti fermi: anche nei paesi sviluppati, siamo tutti meno “uguali” di quel che pensiamo, il capitalismo ci rende più soli e attaccati ad un sogno impossibile, quello che solo nella ricchezza possiamo dirci felici e tranquilli. E poi, questa crisi non finirà mai. Le industrie, quando hanno ancora mercato, scappano dove possono inquinare indisturbate e sfruttare lavoratori al limite della sicurezza e dei diritti; i servizi e tante inutili amenità ci stanno sommergendo, e costringendo ad una vita orientata ai consumi, allo spreco, all’ineguaglianza.

No, troppo astratto. Diciamo che il mondo è diviso tra sicuri e insicuri, ansiosi di accumulare (a varie grandezze) e ansiosi di arrivare al domani. Il lavoro non è più indice di benessere. Tanto che a Londra molti tra quelli che hanno un lavoro vivono sotto la soglia di povertà relativa. Il concetto del lavoro è una convenzione sociale: viene considerato lavoro ciò che il capitalismo definisce produttivo e dunque remunerativo, anche se non apporta nessun beneficio sociale. Quel che non è produttivo in questo senso diventa inutile, ozio, non-lavoro (passatempo? Volontariato? Passione? Hobby?), anche se forse in un’altra epoca, o in un sistema alternativo, sarebbe un lavoro, o quantomeno avrebbe dignità ed utilità sociale, e i lavori davvero inutili o addirittura dannosi sparirebbero.

Torno al Job center. I Job center funzionano bene, ma non possono fare assolutamente nulla. Il lavoro che vorremmo non c’è più per tutti. Quando c’è, è temporaneo e malpagato, o ci rende insoddisfatti, perché così serve il sistema. Il mostro viene creato e poi si finge di volerlo abbattere, per poi dare la colpa ai disoccupati che campano a vita sui benefit. Io penso una cosa semplice e forse semplicistica. Tutti vogliono lavorare. Tutti vogliono un lavoro soddisfacente e retribuito per vivere dignitosamente. Ma soprattutto, tutti vogliono fare qualcosa che piace, sentirsi realizzati, fare qualcosa che contribuisca a migliorare la vita sulla terra, a capire meglio le miserie umane ed alleviare le sofferenze e le disparità, materiali e immateriali. Ritengo quindi che si debba ripensare il concetto del lavoro. Semmai, ciascuno ha al contempo diverse priorità e considera il lavoro una componente tra tante dello spazio quotidiano, a cui dà diversa importanza in ogni fase della vita. Inoltre, lo stereotipo del lavoro stabile, e l’idea che tutti dobbiamo vivere con lo stesso tenore di vita (anche se non ce lo possiamo permettere), ci sta mangiando il cervello. NON siamo tutti uguali. E non lo saremo MAI. La democrazie e la meritocrazia NON esistono. Perché agitarsi? Se ci dicessero che tutto questo è normale, saremmo più sereni, vivremmo meglio, saremmo meno depressi, avremmo meno ansie, e ci aiuteremmo di più.

Perciò se per un giorno lavorassi al Job center, al mio coinquilino direi…
“Ascolta Brian, il lavoro NON c’è, inutile illuderti, se e quando c’è – anche se nella maggior parte dei casi ti farà schifo - ti diamo un colpo di telefono. Intanto, nell’attesa, iniziamo a risistemare cose essenziali per vivere meglio: visto che hai tempo, anziché mangiare schifezze precotte ogni giorno, che ti faranno morire a cinquant’anni [guardare le statistiche per credere!] e anziché deprimerti davanti alla tv dopo questi mortificanti colloqui, ti facciamo fare delle cose utili alla tua persona, dove incontri persone nuove. Che ne so, fare il pane, preparare dei dolci, cose semplici, o altri lavori manuali, per usare in modo proficuo questo tempo. Vi manderei un artista (ma non di quelli spocchiosi), dopo avergli fatto leggere Ruskin, per insegnarvi a disegnare, a guardare ai dettagli, ai colori, a queste nuvole stupende che corrono ogni giorno nel cielo, in modo diverso; ti riempirei di libri essenziali su cui meditare, con cui sentirti ugualmente appagato e produttivo, anzi vi farei fare pure dei corsi di scrittura, individuale e collettiva. A questo proposito, prenderei uno di quegli stabili ex-industriali e rifarei completamente la biblioteca di quartiere, che com’è ora fa schifo, è piccola, inutile e non accogliente. Ti direi, visto che sei appassionato di escursionismo, di organizzare, per tutti i disoccupati di Anniesland, tossici compresi, una gita di gruppo, qui vicino, a Loch Lomond, che conosci bene, con tanto di pic-nic in cui ognuno porta qualcosa da mangiare  - quelle robe che imparerete a preparare -. In fondo, la natura resta ancora un bene pubblico (almeno qui), qualcuno dice che porti beneficio, e che il degrado umano sia dovuto all’allontanamento dai ritmi e tempi della natura. Ti direi, sforzati di usare di più la bici, almeno per le brevi distanze, tanto di tempo ne hai, così sfoghi il tuo nervosismo e fai sport, inquini di meno e risparmi sul carburante. Userei questi soldi pubblici per farvi fare laboratori di musica, canto, pittura, fotografia, ma anche falegnameria, saponificazione, cucito, uncinetto (ok, solo per le donne…). E a Natale farai un figurone, con mamma, papà e sorella. Anziché passare in rosticceria e mangiare per il pranzo natalizio robe precotte, che proprio non si può sentire, preparerai tutto tu; ok, non mi aspetto i ravioli ripieni fatti a mano. E tutto avrà un sapore diverso. E tutto costerà meno. E penserete un po’ meno ai soldi e baderete più alla qualità della vita, a produrre con le mani quello che serve, e al dono del tempo e dei rapporti autentici, mentre aspettate quella chiamata che chissà se e quando arriverà”.

Consideriamo per un istante le cause della maggior parte delle
seccature e delle ansietà di cui ho parlato, e quanto sia
necessario per noi essere travagliati o almeno preoccupati.
Sarebbe di qualche vantaggio condurre una vita primitiva e di
frontiera, anche se ci troviamo nel bel mezzo d'una civiltà
puramente esteriore, se non altro per imparare quali siano le
necessità materiali e quali siano stati i mezzi impiegati a
soddisfarle

HD Thoreau, Walden

venerdì 20 settembre 2013

Camminando. Sull'intervista del Papa

Londra sud, 20.09.2013

La nostra vita non ci è data come un libretto d'opera in cui c'è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere...Si deve entrare nell'avventura e nella ricerca dell'incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio. Dio lo si incontra camminando...Dio è sempre una sorpresa, non sai mai come e dove lo trovi

Mentre attendo una risposta decisiva per capire la mia prossima destinazione, voglio leggere attentamente, senza perdermi nel marasma di notizie della rete, l'intervista rilasciata da papa Francesco al direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spataro. La impagino e scarico sul Kindle, perchè la lettura online non aiuta la concentrazione. Ci trovo delle parole immense. Il primo pensiero è (sorrido): con quale argomento d'ora in poi gli agnostici attaccheranno i cattolici su dottrine, papi, linguaggi astrusi, temi etici, cambiamenti sociali? Francesco spiazza tutti, anche noi, che abbiamo alle spalle una storia di militanza in ambienti cattolici, e che spesso ci siamo isolati di fronte a rigidità dottrinale e scarso spazio al dialogo.
Io sono una di queste. E quando è stato eletto Bergoglio, ero a Londra, ho seguito senza entusiasmo la fumata bianca, c'era M. ad aggiornarmi entusiasta, anche sulle varie teorie cospirative e i possibili scheletri nell'armadio del nuovo papa, che accompagnavano le belle parole di presentazione, non ultima la scelta del nome. Non è che non m'importasse, ma vivo tutto ormai con certo distacco, la politica, le promesse, l'amore, il che non vuol dire che non sia poi capace di reimmergermi alla prima occasione convincente e dar spazio alle antiche e sempre presenti passioni.
I mesi, i gesti, le parole, ma soprattutto la testimonianza, stanno parlando su tutto. E io mi ammutolisco incantata di fronte alla realizzazione di tutte quelle speranze che da anni, e per anni, abbiamo scritto, meditato, raccontato, soprattutto negli ambienti e con gli amici della Fuci, ma non solo loro. Ecco perchè penso: come "ci" attaccheranno adesso, che tutti i nostri tentativi conciliatori sono incarnati, risolti in un certo modo, esplosi, con questo Papa? Che poi non è uno tra tanti, di cui raccomandi la lettura per illuminarti la strada in mezzo a tanti bigotti e dottrinari con cui non ti ritrovi più e da cui prendi le distanze. No, ti senti in compagnia, finalmente i tuoi sentimenti, riflessioni e pensieri sulla bocca della massima carica della Chiesa, uno che si presenta come peccatore prima che come papa. Immenso. E con il coraggio di un linguaggio facile, dietro cui non ci si può nascondere, che capiscono tutti, che non è riservato a latinisti o vaticanisti esperti.
Riporto qui i passaggi che più mi hanno colpito, e che più mi ricordano, e mi sanano, quelle ferite del poco amore ritrovato negli ambienti "cattolici", dove ti aspetti una parola di comprensione e invece arriva sempre giudizio, limitatezza, faciloneria, incapacità di penetrare le vite quotidiane e complesse. Rivedo in queste parole i tormenti a cui cercavo di dare personali risposte, pace interiore, tentativi di dialogo con chi attaccava sempre perchè ti vedeva come una pecora del moralismo imperante privo di contatto con la realtà. Categorie in cui mai mi sono riconosciuta, preferendo la mescolanza con tutti i vari ambienti in cui mi sono ritrovata, senza volermi distinguere ed etichettare, perchè noi cristiani non siamo persone con l'etichetta, semmai persone che aspirano ad essere ricordate perchè lasciano un segno, una testimonianza coerente, una traccia di forza interiore. Di tutto questo, oggi non possiamo dire nulla, quando spariremo dal mondo saranno gli altri forse a ricordarsi di noi o a dimenticarci. A noi non spetta che camminare, mescolarci, guardare, e in cuor nostro, e con la vita, pregare e sperare.


"Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli, che risultano più efficaci di quelli forti.

La santità io l'associo alla pazienza: non solo il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita ma anche come costanza nell'andare avanti, giorno per giorno.

Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità...Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie; la prima riforma deve essere quella dell'atteggiamento.

La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l'ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile.

Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con l'insistenza. L'annuncio di tipo missionario si concentra sull'essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più.

Il femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti [teologia della donna].

Dio è certamente nel passato, perchè è nelle impronte che ha lasciato, ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio "concreto" è oggi. Per questo le lamentele mai, mai ci aiutano a trovare Dio.
Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi.

E' necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell'affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell'amore per Dio, e di vedere tutte le cose in Dio.

Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbi. Si deve lasciar spazio al Signore, non alle nostre certezze: bisogna essere umili.

Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla "sicurezza" dottrinale, ha una visione statica e involutiva. E la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona. C'è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi.

E' necessario, per l'uomo che fa cultura, essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. La nostra non è una fede-laboratorio ma una fede-cammino, una fede storica. Dio so è rivelato come storia, non come compendio di verità astratte. Io temo i laboratori, perchè nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci."


mercoledì 11 settembre 2013

MI.TO.RM

Roma, 11 settembre. Come ogni anno, in questa data trovi i voli più scontati. Dunque si parte. Mi aspetta una brutta sorpresa, però. Riapro una valigia che avevo lasciato in una cantina di Milano, con i miei vestiti invernali, e salvo quelli che avevo portato con me in Tunisia, sono quasi tutti marci, da buttare, perchè c'è stata un'infiltrazione tempo fa - eppure mi avevano assicurato che erano stati risparmiati. Sono stata stupida a non controllare prima, fidandomi dell'aspetto asciutto della valigia. Quindi mi sono trascinata inutilmente due bagagli da Milano fin qui, passando per Torino. Ma soprattutto, vivo con sempre meno cose. Un po' un destino. Sono pronta.

Roma. Per la seconda volta in un mese. E stavolta con calma. Dopo tanti, troppi anni. E' proprio vero che il tempo cura le ferite, e ti riconcilia con il passato. Cammino per kilometri e kilometri in questa città, e nel quartiere in cui ho vissuto per due anni, come se non ci fossi mai stata. Sensazioni nuove, sorprendenti. Un bel tramonto sul Pincio, dove non andavo da quel concerto di Capossela, notte bianca 2007. Ma non tornerei a viverci. Troppo caotica, troppo piena di romani, turisti, auto e motorini. Che sofferenza passeggiare per il centro e vedere le auto che scivolano tra un monumento e l'altro!

Italia. Da quando sono tornata in Italia mi sento di nuovo pessimista. Provo insofferenza per le aspettative della società, l'ossessione estetica, il consumismo e l'idea del vivere inseguendo i soldi, che servono, ma in verità non ne servono così tanti, se si tolgono i bisogni indotti. Quest'aria non mi piace, è come se mi si volesse far sentire in colpa perchè da qualche mese di tutto questo non m'importa più nulla, vivo in un'altra dimensione, e anche quando tornerò ad una vita routinaria, spero di non perdere le belle consapevolezze che ho maturato.

MI.TO. L'altro giorno viaggiavo in treno, da Milano a Torino. Ho conosciuto una donna rumena, bionda, non curata ma a mio parere molto bella, sorridente, senza una ruga sul viso. Ha settant'anni, è piena di energie e da quando è giovanissima ha sempre viaggiato, e girato il mondo, da est ad ovest, unendo spirito d'avventura e lavoro. Ha pure tirato su, da sola, due figli, che ha fatto studiare all'Università e che ora stanno per diventare avvocato e notaio. Ma di viaggiare, loro, non ne vogliono sapere. Le ripetono che è matta. E lei ride, spirito giovane in un corpo vissuto, un grande valigione rosa al seguito, e il sogno di vivere un giorno nel posto prediletto, la Sardegna. Ha messo su un'agenzia di viaggi, stavolta da sola, e porta durante tutto l'anno gruppi di rumeni della Transilvania in Sardegna e a Torino. Che energia mi ha trasmesso!

Sono tornata malvolentieri a Torino, giusto per poche ore. E' come quando finisce un amore. Non sai spiegarne il motivo, ma semplicemente non ti piace più. La memoria emotiva per fortuna è breve e flessibile. Ci fa dimenticare in fretta le emozioni passate, e ci consente di non sentirne la mancanza, e anzi, di guardare avanti. Resiste il contatto solo per gli amici cari che ancora ci vivono.

(foto: autoscatto in cui mi specchio in una foto di Salgado)

giovedì 29 agosto 2013

Mediterraneo












Salonicco, Grecia.

Città frizzante, Salonicco, di questi tempi ancora troppo cocente e umida, è stata una piacevole scoperta. Poche ore di sonno, dissanguata dalle zanzare, mi ha fatto conoscere belle realtà e bella gente. Addirittura già conoscenze in comune – in Tunisia! - con tre francesine di passaggio. La crisi quasi non si vede, ma c’è, vorrebbe essere l’opportunità per spingere la città verso una vocazione meno industriale e più culturale. A chi s’immagina una Grecia imbruttita, piegata dalla depressione, dirò che non è così. Tanta gente che fa sport, spazi pubblici ampliati e abbelliti, ci si dedica attenzione e cura, si resiste. 

È vero, come da noi, che molti giovani in gamba sono costretti ad emigrare (e ancora si sentono dire che non fanno abbastanza per cambiare le cose, mentre io continuo a credere che abbiano semplicemente più coraggio di chi sputa facili sentenze), nel nord Europa o in altri continenti, per “ricostruire la propria autostima”, come dicono (e fanno) Z. e K.. Ma è anche vero che, così come in Italia si resiste grazie alla famiglia, qui si resiste perché la quasi totalità della popolazione appartiene al ceto medio, e le risorse ancora ci sono, anche se il futuro fa paura e la politica è un disastro. 

Quando si parla dei problemi del Paese, sul molo, tra amici, viene da sorridere, in fondo siamo la stessa cosa, gli stessi vizi, la stessa tenuta. Con il greco scambiamo battute sui due leader emergenti, da noi Renzi e da loro un certo Tsipras; ride di gusto l’amico giordano, sconvolto dalle “nostre” conversazioni, così identiche, anche nella terminologia, alle “loro”. 

C’è dunque tanto in comune in questo Mediterraneo, nonostante religioni e culture diverse. C’è tanto in comune nel lasciar spazio, o mettere in disparte, la parte innovativa della società, nel consentire alla corruzione – interiore, innanzitutto – di essere la norma e non l’eccezione. Di questo caldo mediterraneo francamente non ne posso più, forse sto invecchiando. Ma porto con me oltre a tanto calore anche le adorate saponette all’olio d’oliva, stavolta greche.

giovedì 15 agosto 2013

Un mese che sembra un anno

Sousse (Tunisia), 6 Agosto, tarda notte

Finalmente si riparte. Non ho mai desiderato tornare in Italia come stavolta. Complice la pessima esperienza lavorativa, e una full-immersion nel mondo arabo-tunisino, soprattutto associativo, posso dire che per adesso ne ho abbastanza. E' tanto che non scrivo, quasi un mese, che mi è parso lunghissimo. Un mese così denso che a ripercorrerlo nei dettagli faccio quasi fatica: ho conosciuto la "meglio gioventù" di Sousse in occasione del Critical Mass, iniziato a frequentare persone interessanti e attive e ad avere veri amici, esplorato la Tunisia da nord a sud, terminato il lavoro, penato per partire, e conosciuto meglio Sousse stessa. Tra poche ore chiuderò la valigia, una valigia enorme ed inutile, pensata per restare fino a novembre, ma come sentivo, anche stavolta è questione di pochi mesi e via. Pochi ma densi, che sembrano anni. Perché non ho fatto la turista, ma sono entrata nelle case, nella vita diurna e notturna, e per certi versi complicata, dei tunisini.

Ho cenato fuori, da sola, stasera, per far tacere la tensione dell'incertezza, in un fast food di Tantana, seduta al tavolo con un cameriere che, ultimo di una lunga serie, mi ha scambiato per una ventiduenne, offerto la cena e un gelsomino profumato, raccontato che la sua vita è solo lavoro e sonno, che guadagna 10 dinari al giorno e che vive in attesa del suo giorno libero per tornare a Moknine, a visitare famiglia e amici. Ad un tratto, quando ormai non ci speravo più, arriva la telefonata di uno dei miei angioletti, che mi annuncia la prenotazione del volo per l'Italia da parte di chi di dovere. Torno a casa a controllare, è tutto vero, l'aver mobilitato gente dalla Scozia al sud della Tunisia ha sortito il suo effetto - alla faccia di chi mi vuole male. 

In fondo, la mia ricchezza è questa, con tutti i limiti del caso, un esercito di affetti, pronto a dare un supporto, foss'anche una parola, un letto in cui dormire, qualche minuto di compagnia, una nuotata, un tè con le mandorle, una telefonata su skype, per dire che è stato bello conoscersi, e che tutto il male di questa esperienza nasconde anche tante benedizioni e incontri che mai sarebbero avvenuti se non avessi preso quella folle decisione mesi fa.

Ultima passeggiata, lungo la via turistica di Kantaoui, la percorro tutta, per salutare un po' di gente nei vari caffè, con la musica nelle orecchie, la solita musica anglosassone che qui stona proprio. Penso che sì, in fondo è stato bello, e che come dicevo in acqua oggi, i tre portachiavi-souvenir della Tunisia partiranno con me, privi delle chiavi di una casa dove andare, persino di quella materna, e per adesso resteranno tali; che sono felice di tornare in una terra dove una donna è libera di scegliere, a trent'anni, di seguire la propria strada e non le tradizioni imposte dalla società, di camminare, viaggiare, uscire di notte e respirare senza essere tutto il tempo osservata, fischiata, molestata. 

Adieu Tunisia!

martedì 9 luglio 2013

Contrasti

Sousse, Tunisia.

Gli angeli esistono. Ne ho incontrato uno, e si chiama H., ha l'età di mio fratello. Proprio nella fase più difficile del mio soggiorno qui, mentre stavo, e in effetti sto ancora, per mollare tutto, l'ho conosciuto, in occasione dell'appuntamento mensile del Critical Mass, il primo a cui partecipavo, da sola (per poi uscirne piena di nuovi amici). Completamente distrutta da una pessima esperienza di lavoro, a contatto con giovani schiavi di una mentalità chiusa ed arretrata, effettivamente pensavo che qui a Sousse fossero tutti fatti nello stesso modo, con sfumature di corruzione interiore prima che esteriore e familismo amorale, pigrizia e poca voglia di scambiare esperienze. 

Ma come la vita insegna, esistono sempre i contrasti. E nel Mediterraneo i contrasti si fanno più forti, più decisi, e dunque più impressionanti, non ci sono mezze misure. E così in Tunisia osservi le ragazze con il burqua integrale, in cui solo gli occhi prendono respiro da piccole fessure, peraltro cucite in modo da non metterli in evidenza, a quelle che diresti europee, che al mare mettono in bikini e non il burquini. Passi dai falchi a gente splendida dallo sguardo lungo, che sogna e sa far corrispondere all'idea la giusta, misurata e umile, azione. Sa osare quanto imparare. Sa amare il lavoro quanto la cura del proprio equilibrio interiore. E soprattutto, sa farti sentire a casa parlando varie lingue, chiedendoti a volte di parlare la tua, se vuoi rilassarti e respirare, che tanto si capisce.

Nel maremoto di una situazione che non so ancora, domani, dove mi porterà, questo angelo, H., mi ha aperto un mondo. Mi ha subito capito e accolto come una sorella, come un'amica, invitato al caffè con i suoi amici più cari (anche se ero l'unica donna nel locale!), alla grigliata della domenica in riva al mare, introdotto in una casa-b&b in cui potrò alloggiare se non saprò dove andare, promesso un invito a casa sua appena inizia il Ramadan. E soprattutto, lui e il suo amico H., ogni giorno mi chiedono come sto, si preoccupano per me, non vogliono che torni in Europa con un'idea così negativa sui tunisini. Vogliono mostrarmi, senza dover nulla inventare, che c'è dell'altro.

In riva al mare, in una pausa pomeridiana, senza sole, ma con una brezza piacevole che raffredda le scottature del primo bagno, mi ritrovo così a parlare con tunisini viaggiatori, chi nello spazio, chi nella mente. Perchè quelli che non possono viaggiare, ma sono curiosi del mondo, accolgono gli stranieri tramite il couch-surfing, e se chiudo gli occhi mi sembra di essere in una qualsiasi città europea o americana. 

[soundtrack: Dire Straits, Walk on life...Perchè per la prima volta ho ascoltato la "mia" musica con i locali]

giovedì 4 luglio 2013

L'homme et la mer

Sousse, Tunisia.

Homme libre, toujours tu chériras la mer!
La mer est ton miroir; tu contemples ton âme
Dans le déroulement infini de sa lame,
Et ton esprit n'est pas un gouffre moins amer.
Tu te plais à plonger au sein de ton image;
Tu l'embrasses des yeux et des bras, et ton coeur
Se distrait quelquefois de sa propre rumeur
Au bruit de cette plainte indomptable et sauvage.
Vous êtes tous les deux ténébreux et discrets:
Homme, nul n'a sondé le fond de tes abîmes;
Ô mer, nul ne connaît tes richesses intimes,
Tant vous êtes jaloux de garder vos secrets!
Et cependant voilà des siècles innombrables
Que vous vous combattez sans pitié ni remords,
Tellement vous aimez le carnage et la mort,
Ô lutteurs éternels, ô frères implacables!
— Charles Baudelaire

lunedì 1 luglio 2013

I bambini del Sahel

Sousse, Tunisia.

Sulla scogliera di Mahdia, una piccola cittadina sulla costa del Sahel, turistica ma non troppo, dove vige un ferreo campanilismo, tre bambini giocano da un'ora per creare un qualcosa che all'occhio del passante non ha alcun significato nè scopo, usando una rete da pescatore e cinque bottiglie. S'ingegnano, fanno prove, mormorano che c'è bisogno di una quarta persona per riuscire nell'impresa. Poi, finalmente, la prova. Ma è un fallimento. Forse vogliono imitare i pescatori, ma in fondo non sanno bene come si fa. Affranti, vanno via. 

E' un'immagine splendida, come tante altre in questi paesini di mare. Mi ricorda la mia infanzia, quando giocavamo tutto il giorno - salvo il momento della siesta - nelle strade, rischiando continuamente secchiate d'acqua dalle vecchine che imploravano silenzio, la mamma che solo in casi di urgenza si affacciava a controllare che non ci si picchiasse troppo, le ginocchia sbucciate, le alleanze cangianti, l'aria e il sole, le marachelle. 

Oggi di queste scene se ne vedono davvero poche in Europa. I bambini sono proprietà privata, il timore dei pedofili (una delle varie mode dei mass-media) li costringe ad una vita da reclusi, davanti ad una play-station e ad una montagna di giochi super-tech che inibiscono la creatività, sotto l'occhio vigile dei genitori che non li mollano per più di un minuto. Eppure noi eravamo "eserciti" di bambini, aggregavamo interi quartieri, con i genitori a casa a fare i loro affari, costruivamo, piantavamo, andavamo spesso in campagna, inventavamo storie e spettacoli teatrali, ci colpivamo coi palloni e ci prendevamo a schiaffi, eravamo pieni di cicatrici, graffi e ferite a forza di pedalare, pattinare, correre. 

Rovescio questa immagine, la riporto al mondo degli adulti. Viviamo nello stesso dilemma. Rinchiusi in casa e attaccati al pc, abbiamo perso il contatto con la natura e la forza, l'energia, che la vita all'aria aperta può dare. Fatichiamo a creare, ad inventare, a mescolare il buono che ci arriva dal progresso con tutto questo. 

Io, per oggi, me ne sto sul molo di Tboulba ad ascoltare Léo Ferrè, col vento che rende il sole più sopportabile, e come per magia lo stress accumulato scompare, e non rimpiango di non essere più partita per Jerba.

sabato 29 giugno 2013

Due lune

Sousse, Tunisia.

Il mare di notte ha un fascino unico. Se poi trovi quegli angoli pacifici, non troppo illuminati, dove qualcuno si nasconde per bere in auto e i pescatori, in silenziosa pazienza, sperano che qualche pesce abbocchi all'amo, con le luci dell'ingresso del porto all'orizzonte e una luna (anzi due...) a tre quarti che fa capolino, il gioco è fatto. Riesci anche a risollevarti da stanchezza, sfiducia, disillusione. 

Questa città mi appare così insignificante, vuota, priva di anima. E ogni volta che cambio aria ritrovo ispirazione, fiducia, armonia. Eppure, come già mi è successo in altre città tunisine, qualcuno che crede davvero, nel modo che piace a me, esiste. Si chiama K., ha più o meno la mia età, ha un'anima verde, creativa, sensibile, e soffre l'aridità della città, e ultimamente pure d'insonnia. Ogni tanto mi porta a respirare la brezza marina, a guardare la luna, o il tramonto. Cose che a nessuno, qui, pare interessino granché. 

Mentre cerco di rilassare la mente, ancora stordita dal sole, dal viaggio, e dal caos della capitale, K. mi confessa che da quando sono arrivata sta riprendendo l'inglese che una vecchia insegnante aveva reso indigesto; gli dispiace che io capisca bene il francese, perché questo non gli impone lo sforzo di cambiare lingua. Beh, rispondo, io ho il problema opposto, il francese non mi viene più spontaneo come una volta, dovrei pensarci, e poi parlare diventerebbe faticoso e un po' noioso. 

E così facciamo lunghe chiacchierate sulla vita, sull'ingiustizia e la corruzione dilagante, sulla voglia di starsene in pace in un luogo selvaggio e deserto - perché è bello combattere, ma poi finisci per distruggere il tuo equilibrio, perdi l'ispirazione -, chissà, magari domani; e se quel pescatore fosse di qualche metro più vicino, penserebbe che siamo matti, a origliare una conversazione a tratti seria, a tratti no, in cui uno parla inglese e l'altro risponde prontamente in francese, come se fossero la stessa lingua.

(Tracy Chapman, All that you  have is your soul)

venerdì 21 giugno 2013

Rivoluzione, "mi manchi"

Sousse, Tunisia.

Forse è un po' presto per parlarne, ma per me il tempo è sempre denso, e meno lento di quel che pensi. Sono qui da poco più di un mese, e ho già capito e sconvolto tante cose, pur rimettendoci sonno, salute, e soprattutto la vita sociale. Ma nell'ottica del non-spreco, sto anche leggendo tantissimo, e molte idee sul futuro mi frullano in testa. Lasciamole fermentare. Per adesso, è il turno di One-dimensional man di Marcuse, dopo aver divorato The precariat di Guy Standing, che ora è disponibile anche in italiano e suggerisco vivamente.

La fatica è tanta e l'emozione di fronte agli ormai quotidiani "mi manchi" da Londra, Roma, Torino, ecc. quasi insostenibile, un po' mi consolano e un po' acuiscono la solitudine. Un bicchiere di vino da rinviare forse per sempre, la compagnia quotidiana che non c'è più, il ricordo di tempi lontani, la voglia di godere da vicino le affinità elettive. Ma devo resistere, senza ingenuità e un po' di cinismo, usando tutte le risorse che ho accumulato in questi anni.

Vorrei condividere intanto, da quest'osservatorio privilegiato, alcuni pensieri sullo stato post-rivoluzionario della Tunisia. 

Come ormai tutti abbiamo pacificamente appurato, la Rivoluzione è stato un bluff, un fulmine a ciel sereno che non ha prodotto gli effetti sperati. E ora spiegherò il perchè.

La società tutta non è pronta. Il Paese ha un potenziale enorme, delle intelligenze incredibili, una marea di ingegneri che sempre più saranno diretti altrove (o usati per fini altrui) da USA e Germania, e questo perchè  il popolo si è da sempre arricchito della mescolanza tra culture. Tuttavia, si tratta, come altri, di un paese Mediterraneo, e certa mentalità dominante non consente alle eccellenze di emergere. 

Come abbiamo visto, finalmente il diritto di voto e la fine del regime ha consentito ai cittadini di eleggere non un governo (anche a livello locale) ma un'assemblea costituente che lavora da due anni e non ha ancora prodotto una carta definitiva. La maggioranza è stata conquistata dagli islamisti moderati di Ennhada, un partito che in modo più o meno latente ha instillato nella società l'illusione che una svolta conservatrice in senso religioso possa portare il cambiamento sperato, un'emancipazione dalle potenze occidentali. La Tunisia finora ha consentito la convivenza pacifica di modelli differenti, più tradizionalisti e più europei, e deve rimanere tale. Il crescente fenomeno dell'influenza salafita rischia di minare questo pluralismo, ed Ennhada, o qualunque partito al potere, deve capire che una strumentalizzazione in un senso o nell'altro porterà solo ad una retrocessione, economica e sociale.
Dovunque vada, il leit motiv è il solito: "Questo funzionava, ma dopo la rivoluzione...."

Eppure non posso credere che un Paese possa essere capace di funzionare solo sotto dittatura, simbolo di ordine e controllo, ma anche di corruzione, spreco, iniquità. La realtà è che manca la capacità di organizzarsi in maniera efficace, di lavorare con obiettivi chiari e condivisi volti all'ottenimento di risultati concreti. Manca incisività, responsabilizzazione diffusa, una coscienza di base e il confronto con modelli differenti che rendano evidenti le sfide più urgenti. Ci sono molte eccezioni, ma pochi personaggi sparuti, più che lavorare e faticare nel proprio piccolo, non possono cambiare la storia. 

Quello che sto osservando più da vicino, e ritengo estremamente interessante, simbolico e sintomatico, è la situazione della società civile organizzata. E' vero che la rivoluzione ha portato maggiore attivismo e voglia di impegno tra i giovani. Ma per certi versi, come mi suggerisce un'attivista di lunga data, pare che sia scattata anche una certa censura. Cioè, finchè sei attivista "molle", non dai fastidio, e magari fai attività di basso profilo, va bene. Ma se la tua attività in qualche modo mette in discussione i poteri forti, allora non va bene e rischi di subire ostracismo. Inoltre - mi scuso per la generalizzazione - credo che la gioventù locale sia poco matura, poco abituata a pensare, poco cosciente dei problemi, lavora per "sentito dire", o inseguendo la moda del momento, e la finalità sono i soldi più che i progetti in sè. Ossessione diffusa è prendere soldi, trovare soldi, poi cosa si fa importa meno, magari poi non se ne fa niente. E di soldi adesso, in questo settore, ne girano tanti, sempre per il discorso estero. Se sei bravo a scrivere progetti ed hai gli agganci giusti fai poker, e puoi anche evitare di darti da fare per realizzare delle attività. Sempre che, anche sulla carta, le attività siano effettivamente utili, interessanti, necessarie. Anche chi critica e vuole cambiare tutto questo, non se ne accorge e naviga sulla stessa barca.

Vivo in una città molto ricca, sul mare, turistica, con uno stile di vita medio abbastanza alto. Ma, a parte una piccola minoranza, i giovani pensano solo al divertimento, come in tutte le città ricche, il loro sogno è far tanti soldi. Essendo nel mezzo del Paese, la mentalità è meno "aperta" di quanto mi aspettassi (salvo per coloro che hanno viaggiato molto), a metà tra quella un po' più europea delle città costiere del nord e quella rurale e chiusa del sud, la voglia di fare è tanta ma la capacità di pensare e agire in modo organizzato scarsa. 
Eppure, udite udite, pare che ci siano, nella sola regione di Susa, ben 230 associazioni/organizzazioni senza scopo di lucro. Quando me l'hanno detto, la domanda è sorta spontanea: "E cosa fanno?". In tutta risposta, una risata. Miriadi di NGOs, persone piene di titoli, ma non si capisce cosa realizzino, concretamente. Sarà la stessa moda che dilaga in Italia, di chi ama sentirsi chiamare "presidente", anche se poi di fatto non presiede, e non fa nulla?

Una ragazza tunisina che sta scrivendo una tesi sull'immagine di sè in Umberto Eco, mi dice, senza mezzi termini (e pure in italiano!), che ci sono tre tipi di giovani: quelli responsabili, maturi, in genere professionisti, che guardano all'impegno senza l'ottica "predatoria", quelli che non hanno i mezzi per potersi impegnare e immaginare ad un paese diverso, e quelli che, pur essendo istruiti, benestanti e benintenzionati, continuano a sentire il richiamo corruttore del denaro, e a vedere tutto in quella sola ottica. Non solo condivido, ma lo vedo, lo sento, lo annuso. E come lei, mi indigno, perchè magari proprio quelli che non hanno i soldi e i mezzi, i poveri, gli ignoranti per origini familiari, potrebbero avere (non è detto, ma chissà), a parità di condizioni, una libertà ed una genuinità maggiore nel costruire il futuro del proprio paese. Utilizzando per esso, e non solo per gli altri, le opportunità che arrivano a cascata da tutto il mondo, imparando, sporcandosi le mani, facendo esperienze vere, prima di reclamare soldi e titoli. 
Ma questi sono vizi che trovi ovunque, e per questo li posso non solo capire, ma anche inquadrare senza ingenuità e fronteggiare.

Da ultimo, una nota sul ruolo dei social network. Si è sempre detto che la rivoluzione è avvenuta grazie ai social network, e in parte è vero. I giovani, soprattutto, si sono sentiti importanti, veicolo di un messaggio di cambiamento e di protesta, ma poi è tutto finito. Facebook dilaga, pare che sia l'unico modo per esistere nella società giovanile, gli altri social network sono ignorati. Al contempo, come ho appurato confrontandomi con alcuni attivisti "smart", Facebook è diventato anche lo strumento del "rincoglionimento" generale (non riesco a trovare un termine elegante, scusate). 
E' il solito problema generazionale, forse, di chi rimprovera i più giovani di essere privi di valori, contenuti, ecc., ma mi sento di essere severa; inoltre, non fosse la necessità di usare Facebook per tenere un certo legame e contatto con gli amici lontani, qui l'avrei già chiuso. Ma sono incredula di fronte a quel che rappresenta qui Facebook. E' tutto, è lo specchio di se stessi, è il modo con cui costruire l'immagine di sè, nessun riferimento alla politica, nessun interesse al mondo, alle passioni personali, nulla di nulla. Solo autocelebrazione, piccolezza, vuoto.


martedì 11 giugno 2013

Viaggio nel viaggio. Istantanee

Paradiso perduto


Per la prima volta da quando sono qui, viaggio da sola, in treno, seconda classe. La gente mi osserva, mi siedo accanto ad una ragazza che legge. Ci vogliono quattro ore per arrivare a destinazione, con me ho alcuni articoli de L'Internazionale, Walden di Thoreau, un po' di musica. La colonna sonora è "Bar Casablanca" di Pippo Pollina.


Gabès è una città del sud, bollente, agricola, tradizionale, caotica e inquinata. Le strade sono malridotte, la gente guida in stile "sopravvivenza", zigzagando attorno alle buche, parlando al cellulare senza auricolare (abbiamo pure rischiato un incidente!); i motorini anche di sera girano senza luci, la gente attraversa a caso. Una volta questa città era chiamata "the little Paradise", perchè, unica al mondo, ha mare, oasi e montagne nel raggio di pochi chilometri. Da quando ospita la più grande azienda chimica della Tunisia, purtroppo, è diventata il paradiso dell'inquinamento, per non parlare dei problemi che già si riscontrano altrove: cimiteri di plastica (buste e bottiglie) ovunque, spazi verdi sempre più compressi, magari privati, oppure occupati da uomini ubriachi, dunque rischiosi. Assaggio la maestosità dell'oasi nei tempi che furono grazie alle foto esposte nello zoo: palme rigogliose e verde dappertutto. A Gabès essere felici e realizzati significa avere una casa grande, sposare un uomo ricco, avere dei figli il prima possibile.

Ho trascorso due giorni intensissimi presso la famiglia A.. Una famiglia normale, nè ricca nè povera, tutta lingue, perciò aperta al mondo. Papà insegnante di francese, in pensione, blogger e contadino, appassionato di politica e oppositore di Ben Ali, è lui la mente che ha plasmato l'intraprendenza di questa famiglia; I., la mia amica, insegnante d'inglese e fondatrice di un'associazione di volontariato, viaggia molto grazie alle opportunità formative offerte da Germania e USA, che qui riversano fiumi di soldi per drenare cervelli a basso costo; F., sua sorella, studia inglese all'università, mastica pure lo spagnolo e sogna l'Andalusia. La mamma, una donna modesta, casalinga, tutta dedita alla famiglia, qualche anno fa parlava l'italiano perchè guardava la RAI. Appena arrivo mi scambiano per un'attrice francese, mi chiedono quale sia il segreto della linea (?) e soprattutto del mio taglio di capelli. Mi accolgono come una figlia, e mi deliziano con mille prelibatezze locali, dal cous-cous al succo di palma, insegnandomi, tra un piatto e l'altro, qualche parola (e parolaccia) di dialetto tunisino. Il secondo dei quattro figli vive in Germania, il terzo è apparso solo un paio di volte, forse si vergogna della mia presenza. F., con cui ho avuto delle lunghe chiacchierate sulla vita e sul futuro, mi regala un paio di orecchini, si è svegliata presto apposta per salutarmi, mi abbraccia e sussurra: "Mi sono così abituata alla tua presenza che non voglio che tu parta! Torna presto". 

Viaggio verso Djerba, in louage, unica donna e unica con la cintura di sicurezza, di fianco all'autista. Una collega, I., mi ha parlato di una sua amica, K., che vive in quest'isola magica (Lotophagitis), dove approdò Ulisse. "Secondo me, - scrive I. quando ci mette in contatto - avete da condividere molto più di un caffè". Ho meno di venti ore in totale, ma decido di partire lo stesso.


Ulisse moderni

Per nove infausti dì sul mar pescoso
I venti rei mi trasportâro. Al fine
Nel decimo sbarcammo in su le rive
De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo
È d'una pianta il florido germoglio.
Entrammo nella terra, acqua attignemmo,
E pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della fame i desiri e della sete,
Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo
Giungo un araldo, e a investigar li mando,
Quai mortali il paese alberghi e nutra.
Partiro e s'affrontaro a quella gente 
Che, lunge dal voler la vita loro, Il dolce loto a savorar lor porse.


Con K. ci sediamo a bere una limonata, la mia bevanda preferita, in un bar sulla spiaggia lontano dal caos della città. Parliamo di politica, di questa inutile Costituente*, composta prevalentemente di soggetti che per vendicare la sofferenza e gli anni di prigionia vissuti sotto il passato regime sono assetati di potere, denaro e interessi personali, e di fatto prendono tempo e lasciano morire lentamente un paese straordinario, ricco di cultura e di diversità vissute in armonia, e che oggi, in nome di una religione strumentalizzata ad arte, vogliono controllare i costumi, disintegrare questa varietà, creare un nemico comune. Mi parla anche del volontariato con i bambini, della ricerca di dottorato e del suo amore per la poesia. Insegnava inglese a Gabès, ma poi si è trasferita qui, ed ha avuto una bellissima bambina, N., che oggi ha quasi due anni e ci osserva dal passeggino, s'inebria del profumo del mare, e s'addormenta. 

Viene a prenderci suo marito, A., e andiamo a casa, in campagna. All'inizio K. sembra giustificarsi per ogni cosa, questo è di seconda mano, la nostra casa non è grande, non abbiamo il seggiolone e preferiamo usare il passeggino anche per i pasti, la bambina non posso lasciarla a nessuno, ecc., ma poi si rende conto che non sono il tipo di persona con cui deve farsi certi problemi. A. non parla molto, ma è un uomo attento, colto (insegna all'università), amante della campagna e della fotografia. Sorride divertito ad ascoltarci, e mi rivela che dopo sei anni insieme, è la prima volta sente parlare sua moglie in inglese.

Tardo pomeriggio. Con K. facciamo un giro della campagna, mi mostra le case tipiche dell'isola. Mi racconta che un'associazione locale si sta interessando a vari problemi ambientali, è riuscita ad ottenere che le costruzioni edilizie restino basse e lineari, in sintonia con quelle storiche, per non alterare il paesaggio urbano. Ci sediamo sulla panca all'ingresso, a godere del silenzio e della piacevole brezza dopo l'afa insostenibile a cui devo ancora abituarmi. Finiamo per parlare di Londra. Della "nostra" Londra, di come l'abbiamo vissuta, a volte senza essere capite. La ricordiamo affascinate. K. sogna di tornare sull'isola per visitare il Lake District, io per esplorare la Scozia. Ci chiediamo se tanta ispirazione artistica, nella storia, fosse stata possibile senza l'immersione nella natura.

Quando N. si sveglia, A., che indossa per l'occasione un abito tipico locale, una lunga casacca bianca e semplice, ci porta sulla spiaggia vicino al faro. E' crepuscolo, il posto è deserto, a parte una coppia che fa il bagno, la donna è vestita. Ci fermiamo ad ascoltare il suono avvolgente delle onde. Anche a me piace il mare per pensare ed ascoltare più che per nuotare. K. mi dice: "Mi sembra che ci conosciamo da una vita. Resta ancora un po', se puoi". A. registra per me un video con i suoni del mare.
Dopo cena, la piccola N., che in genere non si addormenta senza papà, si infila nel mio letto, spiazzando tutti. "Le piaci molto, è strano vederla così felice con qualcun altro, di solito è schiva". Al mattino, prima di accompagnarmi in stazione, trovo un cesto di fichi appena raccolti dall'albero come ricordo di viaggio. 

Riprendo il louage, il traghetto, il treno, per Susa. Mi è sembrato di star via un mese. E già sento tanta nostalgia di questa atmosfera, fatta di paesaggi e persone "sapienti", che coniugano semplicità, manualità e studio.  Riapro Walden: 

"How could youths better learn to live than by at once trying the experiment of living? Methinks this would exercise their minds as much as mathematics. If I wished a boy to know something about the arts and sciences, for instance, I would not pursue the common couse, which is merely to send him into the neighborhood of some professor, where anything is professes and practised but the art of life; - to survey the world through a telescope or a microscope, and never with his natural eye; to study chemistry, and not learn how his bread is made, or mechanics, and not learn hot it is earned; to discover new satellites to Neptune, and not detect the motes in his eyes, or to what vagabond he is a satellite himself; or to be devoured by the monsters that swarm all around him, while contemplating the monsters in a drop of vinegar. (...) Even the poor student studies and is taught only political economy, while that economy of living which is syonymous with philosophy is not even sincerely professed in our colleges. The consequence is that while he is reading Adam Smith, Ricardo, and Say, he runs his father in debt irretrievably. As with our colleges, so with hundred "modern improvements", there is an illusion about them; there is not always a positive advance. (...) Our inventions are wont to be pretty toys, which distract our attention from serious things. (...) We are in great haste to construct a magnetic telegraph from Maine to Texas, but Maine and Texas, it may be, have nothing important to communicate.

*tra i membri della Costituente, vi è una persona che conosco bene, di cui un'attivista, a Tunisi, mi ha parlato malissimo, dicendo testualmente: "Da quando è arrivato in Tunisia per la Costituente, O. ha lasciato nel mar Mediterraneo tutti i valori di democrazia, libertà, diritti umani". L'avevo intervistato, in Italia, nel 2011 (leggi qui), e appena arrivata qui gli ho scritto per rivederlo, salutarlo e magari intervistarlo, ma non mi ha mai risposto. Ora capisco perché.

[le foto di quest'anno sono sul mio blog flickr, per vederle clicca QUI]


giovedì 6 giugno 2013

Duemilatredici

Sousse, Tunisia.

Vivere nel duemilatredici vuol dire anche questo: tornare a lavare il bucato a mano, come a M. quarant'anni fa, vedere gli asinelli per strada, come accade qui in Tunisia, ma anche poter seguire in diretta skype - e veder dirsi di "sì", in un video grezzo e rovinato come una pellicola d'epoca, i tuoi amici più cari.
E, come se non bastasse, commuoversi davanti al pc!

MG e Clem. vi voglio bene, e ve lo dico pubblicamente perchè siete due persone speciali, con voi ho trascorso anni indimenticabili, tra Università, banchetti (!), noiosissime conferenze e dibattiti, preghiere, gite, pranzi e feste in allegria!

Il futuro è nelle mani di chi sa farsi promesse non banali. Grazie di esistere!

(scusate per la foto rubata)


lunedì 3 giugno 2013

Trentanni

Sousse, Tunisia.

A trent'anni
guardi indietro, al passato, e sorridi,
guardi avanti e vedi l'orizzonte;
fai pace col mondo, pensi più alla sostanza che alla forma,
non vuoi essere nessuno oltre che te stesso.
Una sensazione stupenda di immensa libertà.

Sono felice di compiere trentanni nel mezzo della crisi più grave della storia, nel mezzo del totale spaesamento, perché è proprio vero che ogni crisi porta con sé mille opportunità; ti costringe a tornare all'essenziale, a quel che conta davvero: o impari a vedere tutto con occhi nuovi, o al contrario vedi solo distruzione, malattia e declino.

A noi la scelta. A me la scelta.

[la colonna sonora dei miei 30 anni è il nuovo, stupendo singolo degli Hana B, Merry-go-round
http://www.youtube.com/watch?v=r6dlyIZSuEI ]



sabato 25 maggio 2013

Maltempo

Sousse, Tunisia.

Chissà perchè, ma anche io sono convinta che l'ostinato inverno che attanaglia l'Europa abbia a che fare con lo spirito che domina tra la gente, soprattutto in Italia. E in questo caso, ringrazio chi me ne ha tirato fuori, mettendomi nello zaino il sole - al posto dei vestiti, delle scarpe e dei pigiami buttati in aeroporto.

Tutti sono infelici, brutti, pessimisti; chi non lavora o patisce la crisi continua a ragionare con i parametri di felicità legati al solo denaro; chi lavora non ne può più per le crescenti pressioni e per gli orari che non lasciano spazio ai piaceri personali. Per fortuna, molti, moltissimi, stanno anche cogliendo questi anni neri come un momento in cui darsi l'opportunità di pensare per cosa (e come) vale la pena vivere, rischiando di buttare a mare le certezze accumulate fino ad oggi, quelle che siamo soliti chiamare "stabilità", e a cui tutti vorremmo mirare.

Io mi sento tra questi ultimi. Tra poco chiudo un anno incredibilmente bello seppur povero dal punto di vista della "produttività" in senso classico, ma chissenefrega. Ho viaggiato tanto, guadagnato nulla (ma in qualche modo sono riuscita a cavarmela!), imparato tante cose e scoperto dimensioni finora ignorate, incontrato tantissime persone e storie da tutto il mondo, non mi sono mai ammalata (tranne un giorno, in Egitto a settembre, a causa di un virus, debitamente curato con terapia d'urto da amiche arabe: bagno di ghiaccio), e so che il tempo passato a disperarmi mentre nessuno rispondeva all'invio dei miei cv è stato solo tempo sprecato.

La domanda sorge spontanea: quanto vogliamo ancora inseguire un modello capitalistico in cui è il denaro e l'idea di stabilità del passato (=casa di proprietà e contratto a tempo indeterminato) a creare l'illusione di una vita sana? Non sono diventata fricchettona, e non lo diventerò mai. Ma ho sentito, ripeto, "sentito", in questo periodo, cosa vuol dire imparare a vivere del necessario, scambiando con le persone care ciò che è veramente importante - e non sono i soldi; ho sentito il benessere fisico e di umore che porta un maggiore contatto con la natura, quella natura da cui questo modello insostenibile ci sta allontanando inesorabilmente e pericolosamente. Non sto dicendo che non dobbiamo più far nulla, ma vivere in modo diverso, costruire una qualità diversa, nelle relazioni e in quello - anche poco - che possiamo condividere e fare.

Forse ho letto troppo Terzani, sto leggendo troppo Gros e Thoreau, e voglio rivedere, stasera, Into the Wild. Non è questo, è che le "cose" ci parlano, in questo caso film e libri, a seconda di quanto siamo ricettivi e sensibili noi. E io, ultimamente, mi sento sensibilissima.

Così, qui, soffro nel vedere distruggere ettari ed ettari di terra che anni fa era destinata agli spazi verdi, per costruire i villoni dei ricchi e potenti, con vista mare, ma anche imponenti condomini bianchi. Perchè così tante case, e così grandi? Mi sono persa per caso un qualche boom demografico? Polvere dappertutto, cantieri dappertutto, il verde viene giorno per giorno divorato dal cemento. Ieri mi hanno portato a vedere un tramonto in collina - la collina dei ricchi, appunto - e ho notato un bel boschetto non lontano da casa. Ho chiesto se non fosse pericoloso andarci. La risposta: "Non puoi, perchè è uno dei pochi boschi aperti, dove gli uomini vanno ad ubriacarsi di nascosto dalla polizia, cosa che in pubblico non possono fare per motivi religiosi".

Insomma, cercasi compagnia per le gite d'avventura.

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(condivido alcune letture)

"Troppo spesso e da troppo tempo siamo inseguiti da brutte immagini destinate a farci credere che la pienezza dipenda dal possesso di oggetti, dai riconoscimenti sociali. E noi andiamo sempre troppo lontano, alla ricerca di una gioia che invece è vicinissima, così semplice che per ciò stesso diventa difficile, siamo già al di là, l'abbiamo sempre superata. L'esperienza della marcia ne costituisce una riconquista"

"Il necessario non s'impone come una fatalità, si scopre, si scova, si conquista...E' più che frugalità: accontentarsi di poco, fare attenzione"

"Un uomo in buona salute equilibra ogni stagione, in modo d'avere, anche in inverno, l'estate nel cuore. Lì è il Sud"

"Cominciare a vivere una vita vera equivale a cominciare un grande viaggio"

"La verità è rottura, è a Ovest: per reinventarsi, bisogna ritrovare in noi, sotto il ghiaccio delle certezze acquisite e delle opinioni immobili, la corrente del selvatico: ciò che sgorga, fugge, trabocca. Siamo prigionieri di noi stessi".

"La natura aiuta ad espandere la coscienza...la sua immensa bellezza è lì per tutti; nessuno può pensare di portarsi a casa un'alba o un tramonto"

"Se uno non ha niente dentro, non troverà niente fuori. E' inutile andare a cercare nel mondo quello che non si riesce a trovare dentro di sè"

"Non mi basta viaggiare solo nella testa, perchè mi interessano le persone e le cose, i colori e le stagioni"

"Non chi ha nostalgia dell'antico e confonde l'eterno col passato, nè chi si rifugia in patetiche solitudini arcaiche e aristocratiche, ma chi accetta con umiltà di mescolarsi alla promiscua confusione quotidiana, al mutamento di tutte le cose relative, di abitudini e gerarchie, è fedele al valore, perchè impara a riconoscere e rispettare la dignità degli uomini anche quando essa gli si presenta in modi e forme cui egli non è abituato e che lo possono anche respingere o turbare"

E. Vedder - Into the Wild soundtrack